giovedì 3 maggio 2012

ELENA TENTI - La lettura e la storia nel romanzo Un infinito numero di S. Vassalli


«Con la lettura ci si abitua a guardare il mondo con cento occhi, anziché con due soli, e a sentire nella propria testa cento pensieri diversi, anziché uno solo. Si diventa consapevoli di se stessi e degli altri. Gli uomini senza la lettura non conoscono che una piccolissima parte delle cose che potrebbero conoscere. La lettura può dare cento, mille vite diverse ed una sapienza ed un dominio sulle cose del mondo che appartengono solo agli dei».


Il romanzo ha inizio narrando i primi anni di vita di uno schiavo chiamato Timodemo, il quale all’età di 18 anni  viene venduto al mercato di Napoli allo scrittore Virgilio. Dal momento in cui si trova sotto la protezione del poeta, Timodemo ha un primo contatto con moltissime opere di autori antichi e contemporanei. Questo lo porta verso una duplice libertà, in quanto Virgilio lo nomina liberto ed egli, dopo essersi arricchito con le molteplici letture, si fa più profondo e ricco di punti di vista.
L’ex-schiavo, però, decide di passare il resto della sua vita accanto a Virgilio, accompagnandolo assieme a Mecenate e ad altri aiutanti in un viaggio in Etruria. Questo non è solo un momento per conoscere la geografia e i luoghi dove vivono i Rasna, ma è soprattutto un viaggio introspettivo alla ricerca delle tradizioni e del passato di un popolo rimasto sempre nell’anonimato, e di paragonarlo al mondo dei Romani. Il momento più importante dell'immersione nelle radici di questa terra è la notte mistica passata nel tempio del dio Velthune, a rivivere, attraverso l’utilizzo di sostanze stupefacenti, il passato degli Etruschi. A questo punto, il lettore subisce un forte straniamento, in quanto non si rende più conto di dove termini l’esperienza al tempio e di quando l’autore ricominci a narrare le vicende contemporanee. Si inizia a capire infatti l’importanza del tempo: un parametro di misura creato dall’uomo per sentirsi padrone di tutto e di tutti. Gli Etruschi, con la loro infinita storia, fanno capire quanto in realtà il tempo sia impossibile da concepire, essendo un ripetersi all’infinito di fatti e di persone molto simili.
Dopo questo primo sussulto il lettore ne subisce un altro: la critica dell’opera di Virgilio, l’Eneide. Secondo l’autore, l’opera da sempre apprezzata e amata da tutti non ha nessun fondo di verità, in quanto non riporta i momenti cruenti dell’occupazione delle terre laziali da parte di Enea. Il protagonista dell’opera di Virgilio è stato divinizzato dal poeta latino, mentre in questo romanzo moderno è dipinto come un uomo crudele e senza pietà. La stessa epoca di Ottaviano non viene presentata come un momento di fioritura della cultura e dei princìpi dell’antico popolo romano, bensì un periodo saturo di rabbia e rancore provenienti dalle guerre precedenti: l'epoca insomma di una Roma abitata da uomini rozzi e senza cultura. Possiamo dunque dire che questo romanzo è un’anti-Eneide, che sfata quel mito della grande Roma e soprattutto del grande Enea. 

giovedì 26 aprile 2012

ELEONORA FERRI - da Un infinito numero di Sebastiano Vassalli: selezione antologica


Il tempo

Questo brano, collocato all’inizio del libro Un infinito numero di Sebastiano Vassalli, riporta le parole della voce narrante, Timodemo, rivolte al suo interlocutore, al quale narra l’intera storia.
Il tempo riveste nel romanzo un ruolo fondamentale, preannunciato all’inizio del libro dal brano che segue, e viene presentato implicitamente anche in molte vicende: ad esempio, quando nel tempio di Mantus i protagonisti hanno la possibilità di scegliere se viaggiare nel futuro o nel passato. Il futuro per i Rasna (ovvero gli Etruschi) è ormai poco, perché essi sono destinati a estinguersi, mentre il passato nasconde segreti che Virgilio vuole trasformare in verità, per scoprire come fosse Enea, e come, con i suoi compagni, avesse fondato la città. 
Ci sono tuttavia storie che rimangono sospese fuori dal tempo - afferma Timodemo - perché i loro protagonisti ne conoscono o ne vogliono conoscere soltanto una parte. Per confermare la sua teoria, Timodemo ricorda Virgilio, che presentò la storia di Enea come un'impresa eroica e valorosa, anche se nella realtà Enea stesso era ben altro: un uomo «grasso e schifoso, più viscido di una lumaca e più puzzolente di un porco». 


“Il tempo, - disse Timodemo, - è pieno delle nostre storie e non sa cosa farsene. E anche noi, che siamo i personaggi di quelle storie, finiamo poi sempre per soffermarci su un dettaglio, e perdiamo di vista l’insieme…”
[…] “Ci sono storie, - mi rispose dopo un breve silenzio, - che rimangono sospese fuori del tempo perché i loro personaggi ne conoscono soltanto una piccola parte, e perché nessuno riesce a vederle per intero. Sembra incredibile ma è così. Anche il mio amico Virgilio, nei suoi ultimi giorni e mesi di vita, si era reso conto di essere passato vicino a una di quelle storie, e di non avere saputo riconoscerla...”

ELISA MONARI - da Un infinito numero di Sebastiano Vassalli: antologia



La città cogli occhi di un bambino

Nelle prime pagine del libro Un infinito numero di Sebastiano Vassalli, Timodemo descrive la città di Nauplia in cui vive, e in un primo momento essa sembra quasi una città ideale, in cui le persone vivono in serenità e armonia. A Nauplia, infatti, le finestre delle case sono dipinte con i colori dell’arcobaleno, non piove mai e c’è sempre il sole.
Per Timodemo, a Nauplia i bambini sono come i cani: l’unica eccezione sta nel fatto che questi ultimi non hanno un posto dove trascorrere la notte, a differenza dei bambini, che dormono in un letto caldo nelle loro camere.
Timodemo, inoltre, descrive la maniera in cui le donne si agitano e urlano quando cade in mare un bambino e muore annegato. Si tratta di un’immagine che difficilmente si trova descritta nei libri quando l’autore vuole presentare una città. A Nauplia succede anche questo, e il narratore vuole mostrare, oltre agli aspetti positivi, anche gli eventi drammatici che accadono.
Infine, viene presentata la madre, Pasitea: una donna che si occupa del figlio senza avere un marito e che, per vivere e mantenere il figlio, fa la prostituta. Timodemo dice che gli uomini che vengono a casa sua sono sempre diversi e che le portano ogni volta indumenti o cibo, si sdraiano sul letto e ogni tanto lo prendono in braccio. Man mano che la narrazione prosegue, Timodemo entra sempre più nello specifico e nel dettaglio: dalla descrizione della città di Napulia, a quella dei bambini, fino ad arrivare alla descrizione della madre, del suo lavoro e del suo aspetto fisico.

“Mi chiamo Timodemo e sono nato in Grecia, in una piccola città di nome Nauplia, a poche miglia da Argo. Nauplia è il nome di un borgo in riva al mare; e io, quando vado indietro con la memoria fino ai giorni della mia infanzia, rivedo una strada che scende verso una spiaggia piena di scogli, e un grappolo di case imbiancate a calce, con le porte e le finestre verniciate nei colori dell'arcobaleno: il rosso, il giallo, l'azzurro, il viola, il verde smeraldo... Anche le barche dei pescatori che ci sono giù al porto sono dipinte con gli stessi colori e, in più, mostrano sulle fiancate immagini di draghi, di arpie, di divinità infernali o celesti. In quel posto c'è sempre il sole, e non piove mai. (Io, almeno, non ricordo di aver visto piovere).
Ci sono molti bambini e molti cani che gironzolano da una casa all'altra e poi ritornano sul molo del porto, i bambini per giocare tra le reti e le barche tirate in secco, e i cani per disputarsi qualche carogna di gabbiano o per stendersi al sole. Ogni tanto si sentono delle grida e si vedono delle donne che corrono verso gli scogli, dove altre donne scarmigliate indicano un punto nell'acqua: "È lì! No, è lì!" Queste cose succedono quando cade in mare un bambino; ma, in genere, nel momento in cui le donne gridano non c'è più niente da fare, perché il bambino, dopo aver annaspato per un tempo ragionevole, è andato sott'acqua. I bambini, a Nauplia, sono poco più numerosi e poco meno randagi dei cani. L'unica differenza fra le due tribù, quella dei bambini e quella dei cani, è data dal fatto che i cani, di notte, dormono dove capita, mentre i bambini dormono dentro alle case. Quasi tutti (bambini e cani) hanno dei genitori.
Io ho una madre, Pasitea, con due poppe grandi ciascuna come la mia testa, e i capelli neri tenuti sciolti che le arrivano fino in vita. Attorno a mia madre ci sono uomini sempre diversi che le portano roba da mangiare o vestiti, si sdraiano sul suo letto e qualche volta prendono in braccio anche me”.

venerdì 20 aprile 2012

ANNA DE DEO - Il bosco nella Primavera di Botticelli



Nel dipinto La Primavera di Sandro Botticelli ci sono nove figure, che si trovano su un prato erboso, ricoperto da centonovanta piante fiorite, delimitato da un boschetto. 

Le piante sono quelle che fioriscono a Firenze tra marzo e maggio, ma non sono riprese dalla realtà: sembrano piutosto delle montature. 
Il bosco che ricopre lo sfondo del quadro è ombroso, su uno sfondo azzurrino, e gli alberi sono aranci ricchi di frutti e arbusti vari.
L'arancia, simbolo dell'amore, contribuisce al significato del dipinto, mentre l'illuminazione in un solo punto del bosco crea un'atmosfera tranquilla, dai toni sommessi: quello qui raffigurato è insomma il tradizionale topos del bosco della cultura europea, ricco di riferimenti e allusioni soprattutto alla filosofia neoplatonica.

Infatti, Mercurio, al margine del bosco, collega cielo e terra con lo scettro e dunque unisce la realtà terrena a quella divina, facendosi simbolo dell'amore intellettuale, contrapposto a quello sensuale di Clori e Zefiro. Analogamente, le piante sono assunte come emblema di perfezione e rappresentate tramite idealizzazioni.  

ELEONORA FERRI - L. Sepùlveda, Il vecchio che leggeva romanzi d'amore: la bellezza delle cose, la bellezza delle parole


L’amore per la lettura

Questo brano riporta il dialogo fra il protagonista del libro, Antonio Josè Bolivar e un ecclesiastico, sbarcato a El Idilio per volontà delle autorità religiose con il compiti di battezzare i bambini e di mettere fine ai concubinati. 

Il religioso aspetta per tre giorni che qualcuno sia disposto a portarlo nei piccoli villaggi ma, vista l’indifferenza degli abitanti, decide di tornare a casa. Mentre aspetta la barca, tira fuori dalla tasca un libro, immediatamente notato dal protagonista.
Questo episodio spiega l’interesse e la passione che egli ha per la lettura, nonostante le difficoltà che incontra nel praticare questa attività, che per lui è diventata una fuga dalla realtà.
Il frate enfatizzava le parole accarezzando la rovinata copertina di cartone. Antonio Josè Bolivar lo guardava affascinato, sentendosi pungere dall’invidia.
“Ha letto molti libri?”
“Un certo numero. Prima, quando ero ancora giovane e non mi si stancavano gli occhi, divoravo ogni opera che mi capitava fra le mani.”
“Tutti i libri parlano di santi?”
“No. Nel mondo ci sono milioni e milioni di libri. Sono in tutte le lingue e toccano tutti i temi, compresi alcuni che dovrebbero essere vietati agli uomini” 

Antonio Josè Bolivar non capì quella censura, e rimase con gli occhi inchiodati sulle mani del frate, grassocce, bianche, sulla copertina scura.
“Di che parlano gli altri libri?”
“Te l’ho detto. Di tutti gli argomenti. Ce ne sono di avventure, di scienza, storie di esseri virtuosi, di tecnica, di amore…”
L’ultimo caso lo interessò. Dell’amore sapeva quello che dicevano le canzoni, specialmente i ballabili cantati da Julito Jaramillo, la cui voce di guyaquilegno povero sfuggiva a volta da una radio a pile rendendo taciturni gli uomini. Secondo i ballabili, l’amore era come la puntura di un tafano invisibile, ma ricercato da tutti.
“Come sono questi libri di amore?”
“Di questo temo di non poterti parlare, Ne ho letti appena un paio.”
“Non importa. Come sono?”
“Be’, raccontano la storia di due persone che si incontrano, si amano e lottano per vincere le difficoltà che impediscono loro di essere felici.”
Il richiamo del Sucre annunciò il momento di salpare e lui non osò chiedere al frate di lasciargli il libro. L’unica cosa che gli lasciò fu un maggiore desiderio di leggere.


Antonio e la società occidentale

Il brano che segue racconta come Antonio Josè Bolivar sia totalmente estraneo alla società occidentale e come ami dedicare il suo tempo libero ai romanzi d’amore. Non è mai stato nelle grandi città europee e deve sforzarsi per riuscire a immaginare la loro modernità e grandezza. Viene dimostrato anche indirettamente il suo grande amore per la natura affermando che per lui è incomprensibile e imperdonabile che i personaggi dei libri che legge non si curino di poterla sporcare e rovinare. 

Antonio Josè Bolivar Proano dormiva poco. Al massimo cinque ore per notte, più due alla siesta. Gli bastavano. Il resto del tempo lo dedicava ai romanzi, a divagare sui misteri dell’amore e a immaginare i luoghi dove erano ambientate le storie.
Quando leggeva di città chiamate Parigi, Londra o Ginevra, doveva compiere un enorme sforzo di concentrazione per riuscire a immaginarle. Solo una volta aveva visitato una grande città, Ibarra, di cui ricordava vagamente le strade col selciato, gli isolati di case basse, simili una all’altra, tutte bianche, e la Plaza de Armas piena di gente che passeggiava davanti alla cattedrale.
Era questo il suo maggiore riferimento riguardo al mondo, e quando leggeva le vicende ambientate in città dai nomi seri e lontani, come Praga o Barcellona, gli pareva che Ibarra, col suo nome, non fosse una città adatta ai grandi amori. (….)
Ma soprattutto gli piaceva immaginare la neve. L’aveva vista, da bambino, come una pelliccia d’agnello distesa a seccare sui bordi del vulcano Imbabura, e a volte gli sembrava una stravaganza imperdonabile che i personaggi dei romanzi la calpestassero senza preoccuparsi di insudiciarla.


La bellezza delle parole 

Il brano seguente spiega l’impegno e la passione che il protagonista dedica alla lettura. Per lui leggere è un bene prezioso, una compagnia per la sua vita solitaria, distrutta in seguito alla morte della moglie. Tutto ciò che gli è più caro e indispensabile per la sua esistenza sono infatti due cose banali a cui molti non attribuiscono la giusta importanza: la dentiera e la lente di ingrandimento. 

Antonio Josè Bolivar sapeva leggere, ma non scrivere.
Al massimo riusciva a scarabocchiare il suo nome quando doveva firmare qualche documento, per esempio in periodi di elezioni, ma avvenimenti del genere si presentavano così sporadicamente che lo aveva quasi dimenticato.
Leggeva lentamente, mettendo insieme le sillabe, mormorandole a mezza voce come se le assaporasse, e quando dominava tutta quanta la parola, la ripeteva di seguito. Poi faceva lo stesso con la frase completa, e così si impadroniva dei sentimenti e delle idee plasmati sulle pagine.
Quando un passaggio gli piaceva particolarmente lo ripeteva molte volte, tutte quelle che considerava necessarie per scoprire quanto poteva essere bello anche il linguaggio umano.
Leggeva con l’aiuto della lente di ingrandimento, il secondo suo più caro avere. Il primo era la dentiera.

mercoledì 11 aprile 2012

CHIARA SOMMAVILLA - Esiste davvero la pazzia? Cosa significa essere folli?


EVOLUZIONE DELLA FOLLIA NEL CONTESTO STORICO-SOCIALE DAL MEDIOEVO AL XIX SECOLO

Nell'antichità il giudizio sulla follia era in genere negativo: per i Greci antichi, ad esempio, pazzo era colui che perdeva il proprio controllo e la propria dignità. Nel Medioevo, invece, il folle era una figura presente nella vita quotidiana e la pazzia per lo più veniva accettata, mentre nel Rinascimento essa era considerata da un lato un'esperienza rivelatrice delle emozioni, da un altro una devianza che bisognava reprimere: nella letteratura è infatti dal personaggio di don Chisciotte, nel '600, che la follia inizia ad essere vista come un superamento della ragione, in quanto questo eroe è dotato di più fantasia delle persone "normali".
Solo dal XIX secolo la pazzia viene considerata una malattia, si approfondirono gli studi su di essa e si cerca di individuarne le cause per trovare le cure più opportune.

LA FOLLIA COME FONTE DELLA VERITÀ

Non possiamo dare un'unica definitiva spiegazione della follia. Secondo la concezione comune, essa è l'agire senza ragione, il compiere atti temerari e irragionevoli. Foucault, filosofo e saggista, sostiene invece che la follia ha la funzione di rivelare verità nascoste.
In effetti, quando i personaggi letterari sono folli, lo sono per dire o indicare una verità che si può intuire solo da una prospettiva diversa da quella normale. La letteratura rivela insomma, attraverso la parola dei "folli", verità che solo la follia riesce a mostrarci.

L'AMOROSA FOLLIA DI ORLANDO

Oltre alla follia funesta, che genera furor di guerra, delitti, sacrilegi ecc., esiste anche una follia amorosa, come quella rappresentata da Ariosto nell'Orlando furioso.
Orlando scopre l'amore segreto tra Angelica, sua amata, e Medoro, quando capita nel bosco dove essi si sono amati, vede incisi i nomi dei due innamorati e apprende da un pastore della loro unione. Egli allora impazzisce per il dolore, compie azioni insensate, correndo nudo e distruggendo tutto quello che incontra.
La follia di Orlando viene descritta in modo analitico e con precisione clinica: dalla rivelazione del reciproco amore tra l'amata e Medoro, attraverso le fasi del dubbio e della gelosia, fino allo scoppiare della pazzia. La causa che la scatena è il desiderio in Orlando di amore, che purtroppo però non è corrisposto.
Ariosto chiama insomma follia quelle forze presenti in ogni uomo, che non sono controllabili dalla ragione. Orlando diventa furioso non riuscendo a governare la propria follia dal momento che il suo senno è accecato dalle illusioni amorose.

LA PAZZIA È DENTRO OGNUNO DI NOI

Una differente lettura del fenomeno della follia ci arriva da Erasmo da Rotterdam, che nell'Elogio della follia ce la presenta in modo positivo, come forza vitale degli uomini, grazie alla quale è possibile l'illusione sulla vita reale, altrimenti detestabile.
Erasmo afferma che gli uomini sono stolti poiché cercano di allontanarla, nonostante sia la follia la vera fonte di felicità e, spesso, perfino più saggia della stessa saggezza.
Erasmo ci parla peraltro di due pazzie: la pazzia negativa che comprende l'avidità, la brama di possesso e le violenze, e la pazzia positiva, che è la capacità di sognare e di avere delle illusioni.

Attualmente nella nostra società la pazzia è considerata una malattia: perciò sono state create delle apposite cliniche psichiatriche. Questi centri, a differenza dell'antichità, non sono posti dove i malati vengono rinchiusi e torturati, ma dove il malato può recarsi di sua spontanea volontà, se lo ritiene necessario. Anche se a causa di questa malattia spesso si sentono accadere episodi terribili, di solito in un contesto familiare, molti malati sono riusciti, grazie all'aiuto degli psichiatri, a guarirne.

venerdì 6 aprile 2012

Filippo Baietti, il bosco dei cavalieri del santo Graal in Italo Calvino

Italo Calvino, Il cavaliere inesistente

Nel VII capitolo del romanzo Il cavaliere inesistente di Italo Calvino si parla di un inquietante bosco nel momento in cui Agilulfo e Torrismondo discutono sulla verginità di Sofronia, perché il giovane cavaliere dice di essere suo figlio. Torrismondo sostiene infatti che Sofronia lo abbia concepito con uno dei cavalieri dell’Ordine del Santo Graal, poiché ella andava a giocare ogni giorno con loro nel fitto della foresta che circondava il castello in cui abitava, ed era stato appunto a causa di questi giochi fanciulleschi che, appena tredicenne, era rimasta incinta.

Il bosco a cui si riferisce questo flashback è un luogo cupo e tenebroso, dove vivono i cavalieri che, in una misteriosa relazione di magia con la selva, incutono paura e timore sia al lettore che al protagonista del brano, Torrismondo.

Tale foresta per i cavalieri del Santo Graal da un canto è un rifugio dove possono trovare le fonti necessarie per il sostentamento, dall'altro serve a fortificare la loro volontà di isolamento dal mondo, perché è il luogo ideale per dedicarsi alle preghiere, ma soprattutto per migliorare le proprie arti di combattimento. Tuttavia, siccome i cavalieri si dimostrano minacciosi, anche la selva pare cupa e ostile nei confronti di Torrismondo.