Anno domini
1630
Morti violente e repentine, bubboni
lividi sui corpi degli ammalati: la città è preda di un morbo sconosciuto.
Chi sussurra di una malattia
proveniente dall’Oriente, chi parla di peste, chi di febbri maligne o
pestilenti, ormai una cosa è certa: l’epidemia è inarrestabile. I cadaveri
giacciono insepolti per le strade, nessuno che osa spostarli per paura del
contagio, persino gli animali sono vittime del morbo che appesta non solo
Bologna, ma anche le campagne ai margini della città.
Ormai da settimane siamo chiusi in
casa, timorosi di ciò che potrebbe accadere se uno solo di noi si ammalasse.
Nella città vige la più completa
anarchia: chi ruba nelle case dei defunti, chi beve e mangia sfrenatamente, ormai privo di
inibizioni, spazzate via dalla peste come foglie al vento. Troppo tardi abbiamo
infine voluto ammettere la natura di questa malattia, troppo a lungo i medici e
le autorità hanno parlato di una semplice febbre o infezione , invece di
riconoscere questo morbo per quello che è: peste. Abbiamo mentito a noi stessi,
fingendo che l’epidemia fosse dovuta a malefici, polveri o unguenti maligni
sparsi da servitori del demonio. Abbiamo dato inizio alla caccia agli “untori”,
per trovare un capro espiatorio che fosse responsabile del flagello che ha
colpito la città. E ora, è troppo tardi per arginare le conseguenze della
nostra insensatezza, è troppo tardi per arrestare il contagio.
Nella città sono rimasti più morti che
vivi, e persino i monatti, che prima accorrevano numerosi per trasportare i
corpi nelle fosse, seppellirli e bruciare gli oggetti infetti, ora sono troppo
pochi per ripulire le strade dai cadaveri, che restano sdraiati davanti agli
usci, le piaghe ben visibili come monito per i vivi.
Come temevano i governanti bolognesi,
gli altri paesi e le altre città hanno troncato ogni traffico di persone e
merci, sebbene avessimo a lungo evitato di rendere pubblica la gravità del
contagio.
La situazione è disperata, tanto che mi
domando se anche noi, non ancora malati,
potremo vivere a lungo. I ricoveri per i malati, costruiti nell’ultimo mese,
non sono più sufficienti a ospitare tutti gli appestati; i frati e gli
ecclesiastici, che con solerzia hanno assistito i malati, stanno ora morendo
uno dopo l’altro, poiché anche solo il contatto con gli abiti di un infermo può
causare la diffusione del morbo.
Questo flagello ha colpito non solo la
città, ma si è esteso nelle campagne, dove il bestiame muore e i campi sono
abbandonati nelle impietose mani del tempo.
Sono
poche adesso le processioni di penitenti, che pregano Dio di far cessare
l’epidemia di peste, da lui mandata come punizione per le nostre iniquità.
Non vi è più invece alcun credo, alcuna
moralità, nelle nostre azioni: ognuno vive come se fosse l’ultimo giorno prima
dell’Apocalisse, chi prega, chi gozzoviglia intrattenendosi con donne, chi
mangia e beve senza freni. I morti sono abbandonati anche dai parenti, i figli
lasciati morire soli dalle loro stesse madri. Pochi sono i sacerdoti, e molti i
defunti, tanto che ormai non vi sono più funerali, e, se per caso ne viene
celebrato uno, è per un gran numero di morti, gettati insieme in un’unica bara.
Ohimè! Insieme al morbo si è diffusa
anche la pazzia! Non vi è più alcuna carità umana né solidarietà tra i non
appestati, la città è ora vittima del degrado dei suoi cittadini. Da solo viene
lasciato morire chiunque manifesti i sintomi della peste: fiacchezza, febbre,
polmonite, occhi lustri e bubboni doloranti all’inguine e sotto le ascelle.
Così sono ridotti i miei concittadini, così è
ridotta Bologna: nulla rimane della bella città che per lunghi anni fu sede
papale, nulla rimane del suo antico splendore. In questo quadro di morte,
null’altro posso fare se non pregare Dio; anche oggi il mio lamento è amaro:
potessi tornare com’ero ai mesi andati, ai giorni in cui Dio vegliava su di me!
Ora mi consumo, mi hanno colto giorni funesti. Che Dio allontani la disgrazia
dalla mia famiglia, che porga l’orecchio alla mia preghiera!
L'autrice: "Per scrivere questo racconto sulla peste nella città di Bologna, mi sono basata sui testi di Boccaccio e Manzoni. Ho deciso di narrare dell’epidemia in prima persona, come se fossi un uomo che, nel 1630, è direttamente testimone della diffusione del morbo e riporta nelle sue Memorie ciò che sta accadendo nella sua città. Lo stile utilizzato è semplice, elementare, nel tentativo di conferire realismo al racconto che descrive gli orrori dell’epidemia. Nel testo vi sono inoltre alcune metafore che rafforzano la descrizione delle conseguenze devastanti che la peste ha avuto sulla vita associata.
RispondiEliminaNella conclusione del testo, la sensazione di impotenza e la disperazione del narratore sono evidenziati dalla sua preghiera a Dio, preghiera che riprende l’invocazione di Giobbe al Signore nell’Antico Testamento".