martedì 21 febbraio 2012

ALICE MASSI - Il mondo aristocratico e quello borghese nel Decameron


LO SPAZIO
Sono molti e diversi i luoghi in cui sono ambientate le novelle del Decameron, vengono infatti descritti palazzi, residenze di campagna, città e corti.
 Nella novella di Andreuccio da Perugia, ad esempio, vediamo l’affollata fiera di cavalli nella città di Napoli, gli stretti vicoli, le fogne ad aria aperta nella parte più malfamata della città, il porto , la chiesa maggiore frequentata più da ladri di tombe che da fedeli.  La novella si ambienta in una Napoli pericolosa e al contempo piena di vita, in un’epoca in cui la città era ancora un importante centro culturale. 
In un ambiente non borghese, bensì nobiliare, si svolge la novella di Federico degli Alberighi. La sua storia è ambientata inizialmente nella città di Firenze, dove si tengono ricevimenti, tornei e duelli, quindi, dal momento che Federico ha dilapidato le sue ricchezze ed è costretto a ritirarsi nel suo podere in campagna, qui si svolge la seconda metà della novella. La campagna viene descritta sia come un luogo di svago per i ricchi, sia come una misera fonte di sostentamento per i poveri. Qui Federico si occupa del suo orto, e sopravvive procurandosi il cibo con la caccia. Si può notare quindi l’associazione: città-ricchezza e campagna-povertà.  
Un’altra novella in cui vediamo due ambientazioni differenti è quella di Nastagio degli Onesti, che inizia nella città di Ravenna, in ambiente nobiliare, e si conclude poi in una pineta vicino a Classe, in un luogo aperto.  Se la città è un luogo di cultura, dove vivono i nobili e dove si sviluppa il commercio, la campagna è il luogo dove vivono gli ignoranti e lavorano i poveri, nonostante sia qui che si ritirano i nobili nelle stagioni più calde, per trovare sollievo nelle loro residenze fuori città.  Se alcune novelle sono ambientate in città mercantili , come Napoli, Firenze o Pavia, altre sono ambientate in corti e palazzi, come la novella di Agilulfo il re barbiere : la storia si svolge alla corte di Pavia, nel palazzo pieno di servitori vivono il re e la regina, in un ambiente ancora feudale.
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VIRTU’ E  FORTUNA
La concezione di virtù di Boccaccio è molto moderna per i suoi tempi, quasi rinascimentale: la virtù è intesa come l’abilità che si mette in campo per contrastare il caso. Per Boccaccio questa abilità è data dall’intelligenza, l’ingegno che ci permette di dominare la realtà e dominare la Fortuna. Il concetto boccacciano di fortuna è indubbiamente laico, in quanto la Fortuna, che può essere dominata o dominare la nostra vita, non è intesa come volere divino, bensì come “caso” che condiziona, volenti o nolenti, le vicende umane e il flusso degli eventi. La Fortuna è quindi una forza autonoma, che sostituisce la divina Provvidenza. Ne consegue che per Boccaccio la virtù consista nel saper governare la Fortuna, cogliendo le occasioni propizie e reagendo in modo positivo ai colpi della sorte avversa mediante l’arguzia, la furbizia, l’uso intelligente e abile della parola.
Nella novella di Frate Cipolla, ad esempio, il frate riesce a dominare la Fortuna, grazie all’abile uso della parola. Così anche Ser Ciappelletto, nella prima novella della prima giornata, riesce a volgere la situazione a proprio favore grazie al suo ingegno e alla sua abilità nel parlare, e riesce a dominare la realtà, fornendoci  un chiaro esempio di virtù boccacciana: saper governare la Fortuna, senza preoccuparsi della correttezza morale del fine o del mezzo. Ser Ciappelletto riesce a dominare il destino ingannando persino il rappresentante di Dio, per poi essere adorato come modello di santità cristiana, e seppellito in una cattedrale.

IL DENARO 

Nelle novelle di Boccaccio, il denaro ha spesso un ruolo chiave, poichè è causa di inganni e sventure. Boccaccio critica sia gli avidi, come Landolfo Rufolo, sia i dissipatori, come Nastagio degli Onesti. Infatti, sebbene Boccaccio ritenga che il denaro sia importante nella vita, dal momento che ne rimase a lungo privo, non approva gli avidi e gli scialacquatori, promuovendo invece una gestione oculata del denaro. Boccaccio presenta i nobili come dissipatori, ed i mercanti come avidi accumulatori. Per il Boccaccio, la virtù borghese consiste nel saper amministrare i beni e il denaro, cosa che non sempre i nobili sanno fare. Boccaccio non biasima chi, con l’inganno, accumula denaro, come Frate Cipolla o Madama Fiordaliso, anzi sottolinea che non è sbagliato trarre profitto da ogni situazione, anche mettendo da parte i valori morali.

CORTESIA e RICCHEZZA
Per Boccaccio, la cortesia non è più una caratteristica propria dei nobili che si acquisisce per nascita, bensì una nobiltà dell’animo che si ottiene tra alle proprie qualità personali. La cortesia è la virtù che rende l’uomo generoso della sua ricchezza e magnanimo verso chi lo merita. Per Boccaccio la cortesia è uno dei valori sui quali rifondare la società fiorentina; tuttavia, egli parla di una cortesia borghese, conciliata con l’abilità di amministrare il denaro.
 Infatti, Boccaccio intravede nella cortesia medievale, come quella di Federico degli Alberighi, un pericolo per le ricchezze che vengono rapidamente dilapidate.
 Secondo Boccaccio è perciò necessario conciliare la mentalità borghese con quella feudale: la cortesia, la magnanimità e le nobili qualità devono essere unite alla virtù borghese di saper amministrare i beni e il denaro. Per la mentalità mercantile, la massima virtù consiste nell’accumulare denaro e non farsi travolgere dai colpi della sorte, nell’indipendenza e nella laboriosità. Per la mentalità feudale ,invece,  la virtù consiste nella magnanimità, nelle prodezze guerriere, nel disprezzo del lavoro, del denaro e del risparmio. Il Boccaccio suggerisce quindi di unire gli aspetti migliori delle due concezioni di virtù: magnanimità e buona amministrazione del denaro.

LA PAROLA
In Boccaccio la parola ha un’importanza fondamentale, è il mezzo con cui si può esprimere la propria intelligenza, lo strumento che permette di volgere sfortunate circostanze a proprio favore.  Con l’abilità oratoria, tanto celebrata da Boccaccio in tutto il Decamerone, si può governare il caso e dimostrare la propria arguzia, come nel caso di Guido Cavalcanti o del cuoco Chichibio. Nella novella, il cuoco riesce a trarsi d’impaccio con il suo padrone, grazie ad una risposta arguta, evitando quindi una severa punizione. Guido Cavalcanti invece, sentendosi accerchiato da Betto Brunelleschi ed i suoi amici, li lascia di stucco con una sottile battuta, pronunciata la quale esce di scena.
 La parola dimostra le effettive capacità dei personaggi, la loro intelligenza e il loro spirito, e, come nella novella di Cisti il Fornaio, è in grado di porre allo stesso livello due individui di diversa estrazione sociale.

RISPETTO E DISPREZZO
Secondo Boccaccio, sono degni di rispetto tutti coloro che, grazie alla loro intelligenza, riescono ad approfittare di ogni situazione e dominare la Fortuna. Indipendentemente dalla correttezza del loro fine ultimo, Boccaccio apprezza nei suoi personaggi la prontezza di spirito e l’ingegno. Persino un truffatore assassino e bugiardo come Ser Ciappelletto viene apprezzato dall’autore, in quanto riesce a risolvere ogni problema grazie al suo ingegno, sebbene in modo del tutto amorale.
Boccaccio disprezza invece gli ignoranti, i pecoroni, gli stolti, i superstiziosi e i creduloni, tutti coloro, insomma, che si lasciano ingannare o dominare dagli eventi, che restano inevitabilmente vittime di raggiri a causa della loro stupidità o ingenuità. L’autore disprezza inoltre il clero, i sacerdoti della curia romana, che sono il simbolo della corruzione e del degrado umano.

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