martedì 21 febbraio 2012

LUCREZIA SERRA - La pazzia: perdita della natura umana o risorsa di una sapienza alternativa?

La percezione della pazzia è sempre stata la medesima col passare del tempo? 

Approfondendo la storia della pazzia, si può notare che dal Medioevo all’età moderna è cambiato radicalmente il modo in cui essa veniva percepita. Nel Medioevo il pazzo era considerato posseduto da “spiriti maligni”, venivano perciò tenuti per pazzi tutti coloro che eccedevano nella manifestazione dei propri sentimenti. Alle cosiddette persone indemoniate veniva vietato l’ingresso in chiesa e molto spesso, soprattutto le donne, venivano bruciate al rogo. 
Dopo il Medioevo, tra il XVI e il XVII secolo, però, si iniziò a considerare il pazzo come un diverso, e quindi ad emarginarlo. Venne infatti istituito l’Hôpital Général, in cui venivano rinchiusi i folli per essere curati, ma soprattutto perché non stessero a contatto con i sani. 
A partire dal’età moderna, seppur soltanto in letteratura, si iniziò invece a considerare il folle come una persona con qualcosa in più rispetto ai savi: la fantasia. 


Le cure per coloro che venivano definiti folli 

Nell’ '800 si iniziò a pensare alla pazzia come a una vera e propria malattia clinica, perciò si cercarono i metodi più idonei per curarla. Nell’Hôpital Général i metodi terapeutici in uso erano soprattutto delle docce fredde, la camicia di forza, le costrizioni, l'elettroshock e lo shock insulinico: essi non servivano realmente a curare la pazzia, ma facevano patire un tale dolore al pazzo che nel momento successivo egli diveniva più trattabile e tranquillo. 
Col passare del tempo, e con l’avanzare degli studi scientifici, questi metodi vennero aboliti, per passare, a partire dagli anni '50 del '900, agli psicofarmaci. Vi erano principalmente due tipi di pillole: una, come la chiameremmo noi oggi, antidepressiva, e una invece che fungeva da calmante, e cioè l’opposto della prima.

“L’elogio alla follia” di Erasmo da Rotterdam
Il filosofo che con più originalità parla di follia è senza alcun dubbio Erasmo da Rotterdam. Nell’Elogio della follia egli spiega che nella società in cui viveva erano considerati pazzi tutti coloro che cedevano ai sentimenti, poiché si pensava che i saggi non dovessero provare emozioni, ma pensare ed agire in modo distaccato ed obbiettivo. Erasmo critica duramente questo modo di pensare, e anzi in un certo senso predilige il pazzo al savio, perché afferma che un saggio senza alcuna emozione non potrebbe mai prendere una decisione giusta, ma sarebbe come una statua: all’apparenza bellissima, ma vuota e fredda all’interno. 

Don Chisciotte e Astolfo
Un altro grande personaggio da citare parlando di pazzia è senza dubbio Don Chisciotte, un vecchio diventato pazzo a furia di leggere romanzi e storie di guerra. Egli pensa perciò di essere un cavaliere e vede nelle cose più naturali (come nel celebre scontro con i mulini a vento) degli imponenti avversari da sconfiggere. 
Egli muore nel momento in cui gli torna il senno: analogamente, Ariosto smette di nominare Astolfo dopo che, andato sulla luna per cercare il senno di Orlando, ritrova anche il suo. 
Nelle due opere del ‘500, dunque, abbiamo due chiari esempi di come i pazzi, nella letteratura, siano considerati qualcosa di speciale, e di come, persa la pazzia che li contraddistingue, diventino talmente ovvi, scontati e quasi noiosi da non meritare di essere soggetto di ulteriore attenzione.

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