mercoledì 11 gennaio 2012

ALICE MASSI - Perduti nel castello di Atlante


Analisi del canto XII dell’ Orlando Furioso  di L. Ariosto



Nel canto XII del poema di Ludovico Ariosto, intitolato Orlando Furioso, l’autore paragona la disperata ricerca di Orlando, che non trova l’amata Angelica, a quella della dea Cerere, che secondo il mito perse la figlia e, per ritrovarla, scese persino negli Inferi. 

Orlando, il miglior cavaliere cristiano, cerca la sua amata in Francia, e si appresta a giungere fino in Italia e Spagna, quando ne sente la voce disperata che lo chiama. Orlando vede quindi Angelica che viene rapita da un cavaliere, il quale entra in un castello con la fanciulla, senza fermarsi nonostante i richiami di Orlando. Lo stesso paladino segue i due all’interno del palazzo decorato di oro e marmi, e, smontato da cavallo, cerca l’amata in ogni dove, ma Angelica è svanita, e con lei il cavaliere. Orlando si affanna nella sua ricerca, e passa da una stanza all’altra senza sosta. 

Nel palazzo non vi sono muri, ma solo cortine che delimitano le stanze. Correndo da una stanza all’altra, Orlando incontra numerosi altri cavalieri, che cercano anch'essi qualcosa che non riescono a trovare. Infatti, essi sono stati attirati nel palazzo grazie a un’illusione: ognuno di loro ha visto entrare nel castello l’oggetto del desiderio, così come Orlando stesso era stato vittima di questo incantesimo. 

Il protagonista, ormai rassegnato all’idea di non poter trovare Angelica, esce nel giardino del palazzo, e da qui vede a una finestra l’amata che chiede aiuto. Così, con rinnovata energia, Orlando si lancia all’interno del castello per cercarla, non sapendo di essere nuovamente caduto in un tranello. Infatti, ogni cavaliere è vittima della stessa illusione, e sente e vede sfuggire la propria amata o la cosa che più brama e desidera. 

Le due ottave più importanti di questo canto sono la XI e la XX. La parafrasi letterale dell’ottava XI è la seguente: “e mentre camminava invano di qua e di là, pieno di agitazione e pensieri, Orlando ritrovò nel castello Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso, re Sacripante e altri cavalieri, che andavano su e giù e come lui, percorrevano varie strade, e si rammaricavamo dell’azione del malvagio signore di quel palazzo”. Nell’ottava XX è invece svelato il segreto dell’illusione: “una stessa voce o persona che ad Orlando sembrava Angelica, a Ruggiero sembrava la donna di Dordona, Bradamante, che lo allontanava da sé. Se Ruggiero avesse parlato con il re Gradasso o con uno di coloro che erravano nel palazzo, si sarebbe accorto che a tutti loro sembrava che quella cosa (l’illusione) fosse ciò che ciascuno più bramava o desiderava per sé “. In questa ottava Ariosto spiega qual è l’incanto operato dal mago Atlante, che per attirare i cavalieri nel castello mostra loro ciò che più desiderano, ma non possono raggiungere. Nell’opera di Ariosto è frequente l’immagine del labirinto, del castello incantato, dove l’uomo rincorre i propri desideri, ma non ottiene l’oggetto del desiderio a causa dell’intervento del caso. E’ la fortuna che fa da padrona e allontana gli uomini dal loro obiettivo, disperdendoli e conducendoli in selve intricate, labirinti e palazzi incantati, e Ariosto vuole suggerire questa immagine come metafora della vita umana. Infatti, così come i cavalieri nell’inseguire i propri sogni si perdono, gli uomini nella vita tentano di raggiungere un obiettivo ma vengono ostacolati dal destino. 

Alcune parole chiave evidenziano tali temi centrali del testo: “cercare", "parere" (nel significato di sembrare), “inganno", "incanti", "disio", "van/invano”. Questi termini sottolineano la vanità della ricerca di un oggetto del desiderio, che è frutto di un’illusione.Per mettere in evidenza l’affanno dei cavalieri nella loro disperata ricerca, ricorrono nel canto anche espressioni come: “or quindi or quinci", "di su di giù", "alto e basso", "correndo”. Sono numerose inoltre le figure retoriche che evidenziano queste espressioni. Ad esempio, nella terza ottava vi è il polisindeto: “ o selva o campo o stagno o rio o valle o monte o piano o terra o mare [..] “; nella seconda ottava vediamo un’anafora, in quanto viene ripetuta la congiunzione “e” all’inizio di tre versi consecutivi, per sottolineare l’affannarsi di Cerere nella sua ricerca, e ritroviamo questa stessa figura retorica nella quarta ottava, in cui è ripetuto il termine “per”. Le rime divengono poi più aspre e dure nella nona ottava, in cui è narrata la frettolosa e ansiosa ricerca di Angelica da parte di Orlando. All’inizio del canto, inoltre, per mettere in luce la forza del sentimento del paladino per l’amata e la sua determinazione nel trovarla, Ariosto paragona Orlando alla dea Cerere. 

A proposito di questo canto, Italo Calvino disse: “ il desiderio è una corsa verso il nulla, l’incantesimo di Atlante concentra tutte le brame inappagate nel chiuso di un labirinto”. Con questa frase, egli ha probabilmente riassunto l’essenza e il messaggio del canto: infatti, Ariosto vuole suggerire che l’uomo sia destinato a volere ciò che non può avere, e concretizza questa impossibilità con l’immagine del castello di Atlante, un vero e proprio labirinto che, per quanto chiuso e delimitato, contiene le illimitate brame dell’uomo. Ariosto sostiene che l’uomo s’impegna quindi per obiettivi vani, inseguendo ideali e sogni che non può realizzare. Particolarmente significativa in proposito è l’undicesima ottava, dove la futilità della ricerca umana è sottolineata dal termine “ vano”. Questa parola è frequente anche nella decima e nella dodicesima ottava, sempre a evidenziare l’inutilità della ricerca dell’uomo, destinato a essere allontanato dall’oggetto del desiderio dalla Fortuna. 

Nell’affermare questa idea, l’autore interviene personalmente, in prima persona, nel testo, per mostrare la natura illusoria di ciò che vede Orlando e svelare l’inganno di Atlante: infatti, con l’espressione: “ non dico [..]”, nella sesta ottava, è chiarito al lettore che la visione di Orlando è frutto di un incantesimo. La voce del narratore compare anche nella ventesima ottava del canto, sempre per spiegare la malia del palazzo, che si prende gioco dei desideri umani. Questo luogo incantato, magico, viene descritto da Ariosto con una serie di dettagli realistici: l’oro, i marmi, le finestre, i letti, e così via. Risulta dunque evidente in questo testo il "naturale meraviglioso" di Ariosto, ovvero come la fantasia nasca dal reale. 

D'altro canto, si può affermare che il palazzo di Atlante, descritto in questo canto, sia una metafora della struttura del poema, in quanto l’Orlando Furioso di Ariosto è un poema aperto: non ha un inizio poiché è una “gionta” al poema del Boiardo, l’Orlando Innamorato, e non ha una vera e propria conclusione. E’ possibile dunque l’aggiunta di un episodio o un personaggio in un qualsiasi punto dell’opera, così come nel palazzo di Atlante non vi è una delimitazione delle stanze, che sono separate solo da veli e cortine, e non vi è nemmeno un limite a ciò che vi si può cercare perché ognuno vi vede ciò che più desidera e ricerca. 

Questa struttura "aperta", inoltre, non riguarda solo la tecnica narrativa, ma anche le peculiarità della struttura metrica. Se infatti è vero che il poema è in ottave, strofe di otto versi endecasillabi i cui primi sei sono a rima alternata (AB AB AB) e l’ultimo distico a rima baciata (CC), tipica di Ariosto è la tecnica - che ritroviamo anche in questo canto - di non terminare il discorso alla fine di una strofa, ma di iniziare a introdurre l’argomento dell’ottava successiva, così da rafforzare l’unità del testo. Possiamo osservare un esempio di questo procedimento nella quarta strofa, che prelude agli avvenimenti della seguente. Le ottave, inoltre, non hanno sempre autonomia sintattica, cosa che possiamo notare sin dalla prima strofa del canto XII. 

In conclusione, con questo canto, Ariosto propone al lettore una riflessione sul fine che l’uomo ha nel mondo, sulla natura effimera dei suoi sogni e sulle sue aspirazioni, che hanno valore finché rimangono tali e non possono essere coronate, ma anche sulla natura cangiante e imperscrutabile della realtà.

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