lunedì 2 aprile 2012

Alice Massi - La selva dei suicidi


 Il Canto XIII dell’Inferno di Dante Alighieri (1307 circa)


Nel canto XIII dell'Inferno, Dante e Virgilio giungono in una selva intricata e oscura, in cui non si scorge alcun sentiero. Gli alberi del bosco hanno foglie scure, rami nodosi e contorti e non hanno frutti ma spine velenose. Tra rovi così pungenti, afferma Dante, vivono le Arpie, mostri semiumani che, appollaiati sugli alberi, emettono orribili lamenti. In questo bosco cupo e ostile, risuonano lamenti e gemiti, ma non si vede chi li emetta. Dante strappa un ramo da una pianta, e vede uscire sangue scuro, mentre risuona una voce gracchiante, affaticata: la selva in cui si trova il poeta è infatti la selva dei suicidi, che sono qui trasformati in piante per l’eternità. Il bosco, oscuro e inquietante, è poi percorso da cagne nere, affamate e veloci, che rincorrono gli scialacquatori e spezzano i rami delle piante, aggravando le pene dei suicidi.




In questo canto Dante propone un’immagine della selva come luogo di dolore e sofferenza, ma anche di grande inquietudine. E’ un posto disabitato e isolato, come testimonia l’assenza di un sentiero, ma è al contempo spaventoso e agghiacciante, in particolare per i rumori sinistri che vi risuonano e per le piante che versano sangue marcio, nero. La negatività del bosco è espressa dalla triplice anafora nella seconda terzina, costruita con frasi antitetiche: “Non fronda verde, ma di color fosco, non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti, non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco”. Il bosco che descrive Dante è un vero e proprio locus horridus, spaventoso e innaturale. Tre sono i particolari che mostrano l’innaturalezza del bosco: l’assenza di un sentiero, i gemiti e i lamenti, la presenza delle Arpie e delle cagne. Questo locus horridus, che Dante riprende dal celebre episodio di Polidoro narrato da Virgilio nell’Eneide (canto III), assume qui però un significato allegorico cristiano: la selva diventa simbolo dell’anima priva della luce di Dio, del traviamento e del disordine morale. In Dante poi, l’intervento del meraviglioso, a differenza che nell’Eneide, è sostenuto da un rigoroso concetto morale: con il suicidio l’uomo ha rifiutato il corpo, che è stato creato da Dio, il quale per questo lo trasforma in una creatura arborea e innaturale.

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